di Michela Maria Marconi
condividiamo un articolo che ci è giunto da Italia Nostra APS
Sezione di Macerata
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C’è una forma di barbarie che attraversa le Marche, visibile a chiunque percorra le nostre strade provinciali o attraversi i nostri centri urbani, una barbarie culturale. È il frutto di un qualcosa che ha un suono molesto, quello di un rumore stridente di un braccio meccanico che non cura, ma strappa; non pota, ma trita. Stiamo assistendo, con colpevole assuefazione, alla sistematica distruzione del nostro patrimonio arboreo e del verde stradale, vittime di una gestione che confonde la manutenzione con la devastazione.
Chiunque abbia un minimo di conoscenza della materia, di sensibilità o semplicemente di buon senso, osserva con orrore il passaggio dei mezzi meccanici lungo le banchine stradali. L’uso indiscriminato di trinciatrici a braccio su alberature e siepi non è giardinaggio, è vandalismo legalizzato. Questi macchinari non eseguono tagli netti, necessari per la salute della pianta, ma sfilacciano i rami, stritolano la corteccia e lasciano il legno esposto a funghi e patogeni. Il paradosso è tragico, si interviene in nome della sicurezza, ma si ottiene l’opposto: una pianta sbrindellata e indebolita è una pianta che morirà o crollerà, diventando quel pericolo che si voleva evitare.
L’Europa rinverdisce, le Marche cementificano
Mentre l’Europa intera corre ai ripari contro il cambiamento climatico (o, almeno, ci provava fino a non troppo tempo fa…) e adottava strategie innovative di urban forestry, cioè creando delle “foreste urbane” per abbattere le isole di calore, nelle Marche siamo ancora più indietro, sembra di vivere in un’epoca anacronistica. La tendenza locale appare ossessivamente rivolta al passato, quando il territorio era solo una risorsa da sfruttare: si tagliano alberi secolari sani per far posto a parcheggi, si sigillano suoli vivi con piastrelle e cemento, si vede l’albero non come un alleato per la salute pubblica, ma come un problema di “sporcizia” (le foglie) o di intralcio. È una visione miope, lontanissima dall’atteggiamento di rispetto che si riscontra in paesi come la Francia, la Germania o il Regno Unito, dove un albero secolare è considerato un monumento intoccabile e l’integrazione del verde nell’urbanistica è la norma, non l’eccezione. Ricordo ancora che, una decina di anni fa, in Germania, nei pressi di Berlino, notai come il comune (o chi per lui) avesse messo una protezione intorno ai tronchi degli alberi di fianco all’autostrada per far sì che le ditte che lavoravano con delle scavatrici e caterpillar sulla strada non ne intaccassero la corteccia e non li danneggiassero, una cosa assolutamente fantascientifica da noi.

Il degrado chiama degrado
Questa incuria si manifesta anche nella gestione del verde “basso”. Lo sfalcio dell’erba, quando avviene, è spesso un’operazione violenta e cieca: si trincia tutto, inclusi i rifiuti accumulati, trasformando bottiglie e plastiche in coriandoli inquinanti, impossibili da rimuovere, lasciando poi che rovi intricati, gli unici che sopravvivono ad un tale trattamento, prendano il sopravvento sugli arbusti ornamentali.
È l’applicazione pratica della “teoria delle finestre rotte”, l’incuria delle istituzioni legittima l’inciviltà dei singoli. Un paesaggio curato inibisce il lancio della cartaccia dal finestrino, un bordo strada che sembra una discarica a cielo aperto, pieno di rovi e piante mutilate, invita gli incivili implicitamente al peggio.
Eppure la nostra Costituzione parla chiaro: l’articolo 9 sancisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione“. Gli alberi secolari, i viali alberati, i filari che disegnano le nostre colline, il verde urbano, non sono proprietà esclusiva di un’amministrazione comunale o provinciale pro-tempore: sono Beni Comuni (le maiuscole non sono una svista), appartengono alla collettività, alla nostra storia e al nostro futuro.

Di fronte a scempi reiterati, a pini domestici e querce abbattuti senza perizie valide, a platani e tigli secolari ridotti a moncherini, forse è giunto il momento di alzare il livello della protesta. Non bastano più le lamentele sui social network. È tempo di valutare lo strumento della Class Action. I cittadini hanno il diritto di chiedere conto dei danni causati al patrimonio paesaggistico, sia per dolo sia per manifesta incapacità tecnica. Chi rovina il paesaggio ci sta sottraendo valore economico, culturale, estetico e salutare.
Proviamo, per un attimo, a chiudere gli occhi e immaginare la nostra cultura senza il suo paesaggio naturale. Cosa sarebbe la pittura rinascimentale senza gli sfondi ombrosi e il verde curato delle nostre vallate? Pensiamo alle suggestive opere di grandi artisti come Giacomelli, Licini e Pericoli, che hanno reso famoso il nostro armonioso paesaggio marchigiano. E cosa resterebbe della nostra letteratura? Se quella leopardiana, l’immortale “siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” oggi fosse rasa al suolo o ridotta a un moncherino soffocato dai rovi e dall’immondizia quella poesia non esisterebbe e, con essa, una parte della nostra identità.

Difendere gli alberi e il verde delle Marche non è un capriccio ecologista, è un dovere civico. Stanno rubando il nostro paesaggio, un ramo spezzato alla volta. Sta a noi fermare questo scempio. Possiamo iniziare a contarci, facendo un rilievo ed una mappatura sul nostro territorio provinciale di tutti questi casi di cattiva manutenzione: se ne vedi qualcuno lungo la strada che percorri o nelle vicinanze della tua città o del tuo luogo di lavoro, allora scatta qualche foto e mandacele, segnalando il luogo, tramite messaggio di posta elettronica all’indirizzo macerata@italianostra.org.
Iniziamo a contarci: ti aspettiamo!
Foto di copertina:
Tullio Pericoli, Figura8643







